L’estensione del blocco degli sfratti per altri sei mesi ha provocato, com’era da aspettarsi, le ire di Confedilizia, la lobby della proprietà immobiliare, che di recente si è aperta anche ai grandi fondi immobiliari internazionali. Il nuovo comunicato firmato dal suo presidente Spaziani Testa, come sempre, tenta di alimentare la frattura tra inquilini e piccoli proprietari, invocando la rovina degli uni per evitare la rovina degli altri, e nascondendo il fatto che sono proprio le lobby della grande proprietà a causare la rovina di entrambi. In questo articolo di Marco Peverini, già pubblicato in forma cartacea sul n.5 della rivista Lo stato delle città, ed elaborato nell’ambito dell’Osservatorio sulla proprietà della rete Sciopero degli affitti, diamo un’occhiata alla distribuzione della proprietà immobiliare in Italia, troppo spesso considerato sbrigativamente un “paese di piccoli proprietari”.
Nel corso dell’ultimo secolo, la maggior parte dei governi nel mondo, inclusi quelli italiani, ha puntato a favorire l’acquisto della casa in proprietà. Si è trattato di un enorme sforzo collettivo, dettato da un obiettivo tanto economico quanto politico, legato al sogno di un vasto ceto medio come base della cosiddetta home ownership-democracy, su cui si sono riversati imponenti finanziamenti pubblici. Il sogno di una proprietà diffusa si è ben accordato con strategie di allargamento dell’economia finanziaria, spingendo per decenni grandi masse di popolazione all’acquisto della casa attraverso debito (il mutuo), contributi, sgravi fiscali, ampie concessioni di edificabilità sul territorio e, non da ultimo, svendendo oltre 200 mila alloggi Erp (circa un quinto del totale). A volte, l’acquisto dell’abitazione è avvenuto anche oltre le possibilità o le esigenze delle famiglie e il modello della proprietà a tutti i costi, che ha rivelato le sue debolezze con la crisi finanziaria del 2007-2008, ha riversato le sue conseguenze sociali sugli strati più bassi, tanto da essere ormai criticato anche da punti di vista più conservatori.
Nel corso del tempo molti italiani sono effettivamente riusciti a entrare nel novero dei proprietari – erano meno della metà delle famiglie nel dopoguerra –, arrivando a contare oltre il 70% delle famiglie nel 2018 (a cui si può aggiungere un altro 10% che gode di usufrutto, uso gratuito o altro titolo simile), a fronte di solo il 18,7% che è “rimasto” in affitto[1]. Secondo il senso comune, la categoria dei “proprietari di casa” è fatta di persone e famiglie, “piccoli proprietari” di un alloggio in uso come abitazione principale e al limite di una seconda casa di vacanza o di qualche appartamento ereditato da familiari. Questi rappresentano una componente rilevante dei proprietari e una condizione ricorrente nel ceto medio italiano; tuttavia l’avanzare della piccola proprietà diffusa, reso possibile anche grazie a sussidi e politiche a gravare sul bilancio pubblico, è avvenuto in parallelo a due tendenze divergenti: 1) quella di ampi strati di popolazione che, per ragioni varie (mobilità lavorativa, convenienza, ecc.) ma più spesso perché meno abbienti, sono rimasti nella condizione di inquilini; 2) quella di chi ha “investito sul mattone”, accaparrando immobili non per abitarli ma per metterli a profitto in un’ottica di investimento, per esempio mettendoli in affitto.
Com’è noto, ci sono sostanziali differenze di condizioni soprattutto tra proprietari e inquilini, i quali si concentrano soprattutto nelle fasce di reddito più basse: quasi la metà dei nuclei più poveri vive in affitto (47,3%), mentre tra i più ricchi quasi nessuno (2,7%)[2]. Con il 40% nella fascia tra 51 e 70 anni, i proprietari sono tendenzialmente più anziani degli inquilini, con i più anziani che possiedono immobili di maggior pregio, e lo scarto tra il reddito medio dei locatori di immobili e quello degli affittuari è nell’ordine del 40%[3]. Tenendo poi presente che la quota di famiglie in disagio economico – il cui canone di affitto supera il 30% del reddito – è passata dall’11% del 1993 al 33% del 2016 (dati Nomisma), determinando un fenomeno strutturale di sfratti per morosità, le conseguenze economiche della crisi sanitaria rischiano di travolgere soprattutto chi sta in affitto. Per capire come ciò rischia di esacerbare linee di disuguaglianza esistenti o crearne di nuove, e di generare ulteriori rendite, bisogna però cercare di capire anche chi sono proprietari e locatori: un tema raramente affrontato in Italia ma, come si vuole mostrare, rilevante anche se non facile da trattare.
I PICCOLI PROPRIETARI ITALIANI
Partiamo dai dati disponibili. Secondo un rapporto pubblicato da Banca d’Italia, i proprietari immobiliari in Italia sono 25.500.000: di questi, 1.400.000 hanno un reddito superiore a 55 mila euro, e tra di loro 780 mila superano anche i 75 mila euro. Dalla stessa fonte, i locatori di immobili sono 4.300.000, per lo più persone fisiche (PF, il 95%), ma anche persone non fisiche (PNF, il 5%) – cioè enti e società[4]. Per quello che sappiamo sulle persone fisiche (la distribuzione per fasce di reddito è nota solo per il 79%), quasi il 30% dei locatori si concentra nella classe di reddito che va da 10 a 26 mila euro e un ulteriore 22% dichiara un reddito tra i 26 e i 55 mila euro. A queste ultime due categorie sono riconducibili più del 60% dei contratti, e al crescere del reddito del locatore aumenta in misura rilevante il canone medio di locazione (dai poco più di 5 mila euro annui dei locatori con reddito inferiore ai 10 mila euro, ai circa 26.500 euro per quelli con un reddito superiore ai 75 mila euro)[5].
Al di là delle difficoltà informative, è chiaro che c’è proprietario e proprietario. E quindi ci sono anche proprietari poveri. Come sostengono Filandri, Olagnero e Semi nel libro Casa dolce casa? Italia, un paese di proprietari (Mulino, 2020), “la proprietà, sebbene per lo più associata a migliori condizioni abitative, non è di per sé una garanzia sufficiente a prevenire situazioni di disagio. […] In Italia nel 2016 la percentuale di individui poveri che vivevano in una abitazione in proprietà era di circa il 20%. […] Questo è coerente con il fatto che la proprietà è diffusa tra tutti gli strati della popolazione, sebbene le famiglie povere abbiano sempre più probabilità di vivere in affitto”.
Oltre che di reddito, tra i piccoli proprietari si potrebbero fare distinzioni di valore patrimoniale: se la proprietà è diffusa, la distribuzione del “valore immobiliare” è concentrata e diseguale; ancora secondo lo studio di Bankitalia, il 59% del valore immobiliare è nelle mani del 20% delle famiglie più abbienti; secondo un altro studio del ministero dell’economia, “il 10% dei contribuenti più ricchi, in termini di patrimonio abitativo valutato in base ai valori di mercato, possiede il 35% circa della ricchezza totale”. Ciò significa che una parte dei proprietari possiede beni di maggior valore e meglio localizzati, mentre molti proprietari possiedono immobili di scarso valore – spesso inferiore al costo di costruzione o ristrutturazione –, in quanto in territori periferici o aree interne e con scarse opportunità lavorative e locative.
Inoltre, non ci sono solo piccoli proprietari. Considerando che su 34 milioni di abitazioni censite, 32 milioni sono proprietà di PF, e sottraendo il numero di abitazioni di persone fisiche al numero di proprietari, deduciamo che 7 milioni di abitazioni appartengono a chi ha già almeno un altro immobile. Tra queste, molte risalgono a quelli che potremmo chiamare “medi” o “grandi” proprietari, persone fisiche che hanno messo insieme patrimoni di qualche unità, decina, o anche centinaia di alloggi ben localizzati su zone ad alta domanda, da mettere a profitto attraverso la locazione o altre strategie di valorizzazione. Si cita, puramente a scopo di esempio, la dimensione che aveva assunto l’affitto breve turistico nelle principali città italiane prima del Covid: gli appartamenti sottratti al mercato dell’affitto ordinario e messi a profitto tramite la piattaforma Airbnb erano circa 5.500 a Venezia, 7.200 a Firenze, 9.200 a Milano e oltre 16.600 a Roma[6]. Una vera emorragia di alloggi che, invece che soddisfare un bisogno abitativo fondamentale, venivano gestiti come un vero business in pacchetti da decine o anche centinaia diventando vera e propria “merce”[7].
GRANDI PROPRIETARI, QUESTI SCONOSCIUTI
Ma in Italia esistono i grandi proprietari? La definizione legale di “grande proprietario” vale per i proprietari di oltre 100 alloggi, e viene applicata esclusivamente per quanto riguarda l’obbligatorietà di accordi territoriali integrativi per il canone concordato (a livello comunale), ma non è di grande aiuto per quanto riguarda le statistiche. Anche qui, partiamo dai dati disponibili. Due milioni di abitazioni risultano di proprietà PNF, cioè imprese, fondi o enti pubblici o privati.
Quantificare e caratterizzare i “medi” e “grandi” proprietari non è semplice, anche perché i dati disponibili non sono esaustivi. L’Agenzia delle Entrate dichiara che in Italia l’80% di immobili proprietà di PNF non è tracciabile, poiché le imprese che li possiedono non sono obbligate a compilare il quadro relativo ai fabbricati nella dichiarazione dei redditi. Questo significa che in Italia “sui 7,3 milioni di unità immobiliari che costituiscono il patrimonio delle PNF, per quasi 6 milioni non è possibile esaminare gli usi ai quali sono state destinate”[8].
Per dare un’idea, si tratta di un numero pari a quello delle unità immobiliari date in locazione.
Tuttavia, qualcosa in più ci dice il rapporto di Banca d’Italia, secondo cui solo il 5% dei locatori sono persone non fisiche (PNF), cioè enti e società: sono 230.000, per due terzi riconducibili al settore delle attività immobiliari o delle costruzioni[9]. Il 65% sono piccole imprese con meno di 5 dipendenti, ma detengono solo il 37% dei contratti. Le grandi imprese, che sono l’1% del totale di PNF locatrici (2.300 soggetti), percepiscono circa il 28% degli affitti totali di questo sottoinsieme[10]. Si tratta di “medi e grandi proprietari” che possiedono e gestiscono ampi patrimoni residenziali in modo imprenditoriale, specialmente nelle maggiori città dove i valori sono più alti: patrimoni storici e imperi immobiliari realizzati negli anni del boom edilizio, per esempio da banche, assicurazioni o casse previdenziali, oppure da grandi costruttori come Ligresti a Milano e Caltagirone a Roma. Patrimoni che ultimamente sono stati spesso conferiti o accaparrati da enti di natura finanziaria (per es. i fondi immobiliari) e valorizzati attraverso operazioni di “rigenerazione urbana” e gentrificazione.
Per provare a farsi un’idea di chi siano questi grandi proprietari, è di aiuto il rapporto sui “Grandi patrimoni immobiliari privati 2019 in Italia”, realizzato da Scenari Immobiliari analizzando i bilanci di alcune delle principali società private proprietarie di immobili: nonostante un decennio di “dismissioni”, varie società analizzate (tra assicurazioni, banche, enti previdenziali privati e fondi pensione di origine bancaria) hanno a bilancio oltre 1 milione di mq di residenziale – l’equivalente di circa 14 mila alloggi di 80 mq, o 22 mila di 50 mq – concentrati nelle principali città di centro e nord Italia, in particolare a Roma e Milano[11]. Non è molto, ma considerando le dimensioni ridotte dell’offerta in locazione, il loro ruolo tra i locatori nelle città a maggior tensione abitativa rimane determinante. Bisogna inoltre considerare che spesso il patrimonio societario dismesso dagli enti viene conferito ai cosiddetti fondi immobiliari, un’entità in continua crescita. Nel 2018 il patrimonio dei fondi è cresciuto del 13,8%, e nel 2019 l’Italia è diventata il terzo paese per patrimonio gestito, 77 miliardi complessivi, di cui il residenziale rappresenta l’11% del settore[12]. Con circa 8,5 miliardi di euro di patrimonio residenziale – cioè circa 50 mila alloggi –, il residenziale risulta in espansione, anche grazie alle possibilità di ritorno dettate da nuove politiche di investimento pubblico nel cosiddetto housing sociale, che è molto social sulla carta ma non altrettanto nei prezzi e nei canoni, come dimostrato da uno studio di ricercatori del Politecnico di Milano[13].
Infine,
un ruolo importante nel residenziale italiano è giocato dalla Chiesa
che, secondo un dossier di Repubblica, gestisce un milione di immobili per un valore di 2 mila miliardi, di cui circa il 30% in Italia. Tuttavia, l’opacità delle sue finanze non permette che calcoli approssimativi. Secondo il gruppo di consulenza patrimoniale per enti religiosi ed ecclesiastici Re Ecclesia, il 20% degli immobili italiani farebbe riferimento alla Santa Sede. A Roma, dove ogni anno si registrano tra gli 8 e i 10 mila testamenti a favore del clero, questa percentuale potrebbe toccare addirittura un quarto dei beni immobili. Gli enti che amministrano gran parte di questo patrimonio sono Propaganda Fide e la holding APSA – Amministrazione patrimonio sede cattolica, che possiede 5 mila appartamenti in affitto. Se gran parte degli immobili locati sono di lusso e a canoni agevolati o gratuiti per il clero, una quota consistente ma difficile da quantificare è destinata agli investimenti anche sul residenziale e, con circa 200 mila posti letto, sul settore turistico e alberghiero[14].
CONSIDERAZIONI FINALI
Le fonti disponibili, per quanto spesso non esaustive, indicano che la proprietà residenziale in Italia sia diversificata e disegualmente distribuita. Inoltre, l’uso di fonti meno convenzionali permette di riconoscere l’esistenza di un panorama di medi e grandi proprietari che utilizzano le abitazioni residenziali come fonte variamente remunerativa, o anche come oggetto di accumulazione di capitali in attesa di una valorizzazione futura. Non ha quindi senso parlare di un “paese di proprietari”, quanto di un paese di “piccoli, medi e grandi proprietari” (ricchi e poveri, a seconda), che la casa la usano per vivere (molti), per investire o integrare il proprio reddito (alcuni) e per speculare e ricavare rendita (pochi). L’opinione consolidata secondo cui non si può regolare il patrimonio residenziale privato perché è esclusivamente in mano a piccoli proprietari che ne dipendono per sopravvivere, può essere quindi in parte smontata, aprendo la strada ad alleanze tra piccoli proprietari “veri” e inquilini. Come è stato fatto, per esempio, dall’Osservatorio metropolitano per l’abitare della città di Barcellona, che ha dimostrato (anche grazie a una migliore definizione dei dati[15]) che un terzo delle abitazioni appartiene a grandi proprietari e ha contribuito ad aprire la strada a un dibattito pubblico sulla regolazione degli affitti. Non è un caso che in Catalogna sia stata approvata il 9 settembre 2020 una legge che regola parametricamente i canoni di locazione, un inedito rent control per le città a forte pressione abitativa della regione.
Un ulteriore approfondimento della distribuzione della proprietà in Italia presenta notevoli problemi metodologici, correlati a importanti vuoti informativi: da un lato, non si può capire quante case possiede ogni proprietario (in quanto persona fisica); dall’altro, non si conosce l’uso dell’80% degli immobili delle persone non fisiche. Questo vuoto potrebbe essere colmato solo su scala locale conducendo un estenuante lavoro di ricognizione, per esempio tramite catasto. Ciò vuol dire che al momento le politiche pubbliche vengono disegnate “alla cieca” – se non, piuttosto, con un occhio di riguardo per determinati proprietari. Questo vuoto di conoscenza va colmato perché crea contrapposizioni semplicistiche (per esempio tra proprietari e inquilini) che nascondono le questioni più rilevanti: la sperequazione nella distribuzione della ricchezza e del reddito legata alla proprietà; l’assetto del mercato immobiliare e residenziale. Fare luce sulla distribuzione diseguale della proprietà è il primo passo per discutere di misure che possano agire in senso perequativo e coesivo, con l’obiettivo di riportare gli affitti entro condizioni di sostenibilità per gli inquilini ma salvaguardando allo stesso tempo i piccoli proprietari. Un obiettivo fondamentale per far fronte al divaricarsi delle condizioni sociali ed economiche nel paese, che la crisi sanitaria sta acuendo. (marco peverini)